Il 25 maggio 2020, la polizia di Minneapolis ferma l’afroamericano George Floyd, con l’accusa di avere usato una banconota da 20$ falsa in un negozio. Quello che dovrebbe essere un normale controllo si trasforma però in una tragedia di una crudeltà incredibile: il poliziotto Derek Chauvin tiene per quasi nove minuti il suo ginocchio sul collo di Floyd, che lo implora di allentare la presa perché non riesce a respirare. L’agente non vuole sentire ragioni e continua a schiacciargli il collo, nonostante il tristemente celebre “I can’t breathe”, “non riesco a respirare”: l’ambulanza arriva troppo tardi e George Floyd muore. Gli Stati Uniti sono sotto shock e le proteste divampano ovunque al grido di “Black Lives Matter”, chiedendo di porre fine una volta per tutte ai soprusi della polizia sui cittadini di colore.

I giocatori NBA scendono in prima linea per protestare nelle piazze e nelle strade e non hanno nessuna intenzione di tornare a giocare, temendo che anche stavolta la protesta possa rimanere fine a sé stessa. La lega alla fine riesce a convincerli a riprendere la stagione a Disney World a Orlando, promettendogli uno spazio per continuare a promuovere le loro idee: ogni giocatore ha il diritto di scrivere un messaggio sociale sulla maglietta al posto del proprio nome e vengono proiettati continui messaggi per sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema dell’uguaglianza. La situazione sembra quindi essersi stabilizzata, ma l’equilibrio è destinato a durare poco.

Il 23 agosto la polizia di Kenosha, nel Wisconsin e a pochi chilometri da Milwaukee, ferma Jacob Blake, afroamericano di ventinove anni. La situazione degenera per cause ancora da accertare e il poliziotto Rusten Sheskey spara a freddo sette colpi sulla schiena di Blake, davanti ai suoi tre bambini di 8, 5 e 3 anni. Il ragazzo viene portato d’urgenza in ospedale lottando tra la vita e la morte, i medici riescono a salvargli la vita, ma non possono evitargli la paralisi. Il giorno successivo si riaccendono le proteste di piazza per chiedere uguaglianza e una riforma della polizia, ma le violenze non finiscono qui: un ragazzo di soli diciassette anni apre il fuoco sul corteo, uccidendo due persone. L’opinione pubblica non può rimanere immobile davanti all’ennesimo episodio di violenza razzista e anche tra i giocatori nella bolla di Orlando qualcosa si muove. Si inizia a vociferare di un possibile boicottaggio di gara 1 della serie tra Raptors e Celtics, ma improvvisamente l’attenzione si sposta sul parquet della decisiva gara 5 tra Milwaukee Bucks e Magic: a pochi minuti dalla palla a due, solo la squadra di Orlando è in campo a riscaldarsi, dei Bucks, invece, neanche l’ombra. I minuti passano, ma la porta dello spogliatoio continua a restare irrimediabilmente chiusa.

Facciamo un passo indietro fino al non troppo lontano ottobre del 2015, quando il centro dei Bucks John Henson suona alla porta di una gioielleria di Milwaukee per comprare un orologio, ma dopo pochi istanti si accorge che qualcosa non va. La cassiera del negozio infatti lo sta guardando attraverso il vetro, ma non accenna ad aprire la porta. Henson dopo qualche minuto sente delle sirene in lontananza e all’improvviso capisce e si sente umiliato: la donna si è spaventata nel vedere un ragazzo di colore così grosso e ha chiamato la polizia, nonostante lui non avesse tenuto nessun tipo di comportamento ostile o pericoloso.

Spostiamoci nel piovoso 26 gennaio del 2018, nel quale la guardia Sterling Brown parcheggia per qualche minuto in un posto destinato ai disabili per sbrigare una commissione in un negozio. All’uscita trova un poliziotto accanto alla sua auto che vuole giustamente fargli una multa per divieto di sosta e prova a spiegargli le sue ragioni, ma la situazione degenera in fretta: il poliziotto chiama i rinforzi, gli spara col taser elettronico e lo schiaccia a terra, mentre gli altri agenti guardano e umiliano Brown prendendolo in giro. Nei mesi successivi escono i video delle telecamere che gli agenti portano sulla divisa e l’opinione pubblica insorge, tanto che la città di Milwaukee offre 400’000$ al giocatore dei Bucks per provare a convincerlo a non portare avanti il processo contro la polizia.

Torniamo quindi nel presente e proviamo a chiederci cosa possano avere provato i giocatori dei Bucks alla notizia di questi terribili episodi a sfondo razziale avvenuti ancora una volta nel Wisconsin, lo stato dove vivono con le loro famiglie e i loro figli. La squadra sente di dover fare qualcosa di concreto per portare a un reale cambiamento e George Hill lancia l’idea del boicottaggio, ma l’azione non si ferma qui: dallo spogliatoio i Bucks si mettono in contatto con il vicegovernatore e il procuratore generale del Wisconsin, che dovrà seguire in tribunale la vicenda di Jacob Blake, per cercare di sensibilizzarli il più possibile sull’importanza della questione. Dopo qualche ora e dopo lunghe telefonate, la squadra esce con un messaggio per la stampa letto da George Hill e proprio da quello Sterling Brown che solo due anni prima era stato maltrattato dalla polizia di Milwaukee: i giocatori chiedono giustizia e la fine della brutalità mostrata dagli agenti nei confronti dei cittadini afroamericani, invitando poi tutti ad andare a votare a novembre.

Tutto il mondo di colpo si accorge di quello che sta succedendo a Orlando e la protesta dilaga: anche Rockets, Thunder, Lakers e Blazers si rifiutano di giocare, mentre i giocatori si riuniscono in fretta e furia per decidere se continuare i playoff. I Clippers e i Lakers di LeBron James sembrano voler interrompere la stagione per andare nelle strade a protestare, ma alla fine i giocatori accettano di tornare a giocare a patto che l’NBA si impegni in maniera ancora più attiva nella lotta per ottenere finalmente l’uguaglianza sociale. Molti hanno detto e diranno che il gesto dei Bucks non è servito a niente, ma ogni gesto può rappresentare una scintilla per il cambiamento e i giocatori hanno voluto dimostrare che nella vita le idee sono più importanti del basket e dei soldi. Lottare per i valori in cui si crede conta più di ogni altra cosa e in fondo tutti i grandi cambiamenti nella storia sono nati da piccoli passi compiuti da piccoli o grandi sognatori, che hanno scelto di mettersi in gioco in prima persona per rendere il mondo un posto migliore.

Nel giro di soli due giorni sono stati raggiunti tanti risultati concreti: i proprietari delle squadre hanno accettato di creare un fondo di 500 milioni per finanziare attività in favore dei poveri, per garantirgli la scolarizzazione, la tutela legale e accesso al mondo del lavoro, ma non solo. I palazzetti delle squadre verranno infatti messi a disposizione per creare seggi elettorali (negli Stati Uniti è molto più difficile raggiungere un seggio per votare) e inoltre tutte le squadre promuoveranno ulteriori iniziative per sensibilizzare l’opinione pubblica. Sembra ancora così inutile e insignificante il gesto dei Bucks?

Vorrei concludere con le bellissime parole con cui Chris Webber, ex giocatore e ora opinionista tv, ha commentato il boicottaggio della partita: “We know nothing is gonna change, we understand it’s not gonna end, but that does not mean, young man, that you don’t do anything. Don’t listen to these people telling you ‘don’t do anything because is not gonna end right away’, you will start something”.

“Sappiamo che nulla potrebbe cambiare e capiamo che questo non porrà fine a tutto, ma questo, ragazzo mio, non vuol dire che non stai facendo nulla. Non ascoltare chi ti dice ‘lascia stare, non fare nulla, perché tanto non andrà a finire nel modo migliore’ e potrai davvero dare inizio a qualcosa”.

Francesco Cellerino